La Cassazione (terza sezione penale, sentenza 38485/2019) ha rinviato al tribunale un’ordinanza di sequestro di apparecchiature poste in una struttura non autorizzata a prestazioni sanitarie, posta centro commerciale per rilevare senza alcuna invasività parametri di pazienti che poi erano inviati ed elaborati in un centro medico regolarmente autorizzato. LA SENTENZA.
27 SET – Se non c’è attività tipicamente sanitaria, anche nel caso invasiva, la telemedicina non configura la necessità di un’autorizzazione per essere svolta.
La Cassazione (terza sezione penale), con la sentenza 38485/2019 ha rinviato al Tribunale, in diversa composizione, la decisione di porre sotto sequestro i macchinari di un centro diagnostico regolarmente autorizzato, ma posti negli spazi di un centro commerciale. Da li un’infermiera dipendente del centro aiutava e guidava i cittadini che avessero voluto sottoporsi a diagnosi assolutamente non invasive – utilizzabili anche in autodiagnosi – i cui dati venivano poi inviati alla sede del cento autorizzata dove erano interpretati secondo la loro valenza clonico-diagnostica.
Il fatto
Agenti del Nas di Roma avevano effettuato una ispezione presso una struttura esistente in un centro commerciale, accertando la presenza all’interno di essa delle apparecchiature diagnostiche poi oggetto di sequestro e di una infermiera che aveva affermato agli agenti che il suo compito era di accogliere i pazienti che intendevano sottoporsi ad accertamenti clinici, raccogliere il loro consenso informato, inserire i loro dati in un sistema informatico, trasmettere i dati ottenuti attraverso l’accertamento strumentale ad altro studio medico, ubicato altrove, ricevere il referto che veniva redatto da personale medico e consegnarlo ai pazienti, quindi ricevere il pagamento della prestazione.
L’autorità giudiziaria però ha ritenuto ci fossero gli elementi di cui all’art. 193 del TULS (per l’esercizio dell’attività sanitaria è necessaria l’autorizzazione), in quanto il centro era stato attivato in assenza dell’autorizzazione regionale e ha, proceduto, su richiesta del Pm, al sequestro delle attrezzature.
Anche il tribunale del riesame a cui i legali del centro avevano ricorso, lo ha rigettato e ha osservato che deve ritenersi ricorrere il fumus delicti in quanto la struttura all’interno del centro commerciale eroga prestazioni sanitarie in assenza della prescritta autorizzazione.
Secondo il Tribunale si è di fronte a una ipotesi di servizi di telemedicina, caratterizzati dal fatto che, utilizzando tecnologie innovative, la prestazione sanitaria viene erogata pur essendo il paziente e il medico in località diverse, sostenendo che anche in questa condizione, il centro erogatore del servizio deve essere dotata della apposita autorizzazione regionale. In questo caso il Tribunale ritiene che l’erogatore del servizio sia la struttura ubicata nel centro commerciale non solo perché così appare presso i potenziali clienti (viene segnalata sia la intestazione del listino prezzi che reca la indicazione del nome della struttura e l’elencazione dei servizi diagnostici erogati nei centri analoghi), ma anche il fatto che la acquisizione e la trasmissione dei dati sanitari avviene, presso la struttura, tramite l’intervento dell’infermiera dipendente.
La sentenza
Secondo la Cassazione però le cose non stanno così.
Premesso che, secondo la giurisprudenza della Corte, per l’integrazione del reato (esercizio senza autorizzazione) è necessario che nella struttura, con una finalità imprenditoriale e non meramente libero professionale, siano erogate, in assenza di autorizzazione, prestazioni “tipicamente sanitarie”, quali, ad esempio quelle relative alla somministrazione di farmaci, ovvero alla assistenza medica e infermieristica, anche se connesse a strutture a carattere residenziale, oppure relative alla medicina estetica e dermatologica o anche odontoiatrica.
La Cassazione rileva che “un tale requisito necessita che all’interno della detta struttura siano compiuti atti aventi una rilevanza medica, sebbene non necessariamente a contenuto immediatamente terapeutico, quali, ad esempio, gli atti comportanti una valutazione diagnostica di elementi acquisiti in via diretta o attraverso strumenti di vario genere, non potendo., invece, qualificarsi tali né gli atti il cui svolgimento è scevro da una qualsivoglia attività organizzativa né gli atti nei quali è lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici che, eventualmente, egli successivamente trasferirà al personale sanitario (si immagini la rilevazione operata dallo stesso soggetto interessato della propria temperatura corporea ovvero del peso o della pressione arteriosa, sistolica e diastolica), tramite l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi”.
Ed è questo che è accaduto nel centro commerciale.
Per la Cassazione “si è, in sostanza, di fronte a quel fenomeno, comunemente definito di “telemedicina” come ricordato dallo stesso Tribunale del riesame, il quale si caratterizza in quanto, per la realizzazione di talune pratiche mediche, per lo più diagnostiche, non vi è la necessaria compresenza nel medesimo luogo del paziente e dell’operatore sanitario, operando quest’ultimo sulla esclusiva base di dati a lui pervenuti attraverso tecnologie informatiche il cui utilizzo, appunto, consente lo svolgimento di atti medici anche ‘fra assenti’”.
Quindi presso la struttura del centro commerciale dove viene semplicemente raccolto il dato anamnestico, ma questo non viene assolutamente elaborato, non può dirsi secondo la Cassazione che sia stata eseguita alcuna prestazione “tipicamente sanitaria”, “posto che l’unica attività sanitaria nella presente occasione realizzatasi – in cui non vi è stato alcun atto medico in senso stretto ai fini della acquisizione del dato anamnestico essendo stato questo assunto attraverso strumenti (non comportanti alcuna invasione della integrità fisica del soggetto interessato) che il paziente avrebbe potuto utilizzare anche autonomamente – è quella diagnostica, consistente nell’esame dei dati pervenuti in via telematica e nel giudizio clinico da essi retraibile, la quale è stata integralmente compiuta presso il ricordato ambulatorio polispecialistico, la cui operatività è stata, secondo quanto sostenuto nella stessa ordinanza impugnata i regolarmente autorizzata dagli organi a ciò competenti”.
Inoltre, l’attività svolta dall’unica dipendente non appare né necessaria, “in quanto potrebbe essere anche svolta autonomamente dai pazienti”, né comunque caratterizzata da alcun profilo di rilevanza medica, “consistendo in un mero supporto logistico e pratico (l’acquisizione delle generalità degli utenti, il trasferimento a questi di una serie di informazioni, la trasmissione dei dati allo studio ove operano i medici, la ricezione della diagnosi da questi formulata, la sua materiale consegna al soggetto interessato e, si suppone, anche la riscossione del controvalore della prestazione erogata) fornito agli utenti del servizio, privo di risvolti con una qualche specifica valenza sanitaria”.
Quindi, alla luce di tutto questo “l’ordinanza impugnata deve essere, di conseguenza, annullata con rinvio al Tribunale, Sezione del riesame dei provvedimenti cautelari reali, che, in diversa composizione personale, provvederà a riesaminare la istanza di riesame presentata dalla difesa, provvedendo su di essa, verificando, alla luce degli elementi sopra esposti, se l’attività svolta presso il centro dove è stato eseguito il sequestro preventivo per cui è processo rivesta o meno i caratteri, sia pure sotto le semplici apparenze del fumus, propri della contravvenzione provvisoriamente contestata”.
Fonte: quotidianosanita.it (http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=77236)